Premessa: dalla fine della storia al ritorno della competizione globale
Nel 1992, il politologo Francis Fukuyama pubblicava il saggio “La Fine della Storia e l’ultimo uomo”, sostenendo che il modello liberal-capitalista rappresentava l’apice ultimo dello sviluppo umano, in grado di garantire stabilità e prosperità globale. Secondo questa visione, le rivalità tra grandi potenze sarebbero cessate, aprendo un’era unipolare dominata dagli Stati Uniti.
Più di trent’anni dopo, questa teoria è stata messa fortemente in discussione, con il ritorno della competizione tra superpotenze al centro delle dinamiche geopolitiche e Stati Uniti, Cina e Russia che si contendono il primato globale. In questo contesto, la politica estera dell’amministrazione Trump assume una valenza strategica che va oltre il teatro europeo e si intreccia direttamente con la sfida a Pechino.
Il modello Nixon-Kissinger applicato alla Russia
Il 21 febbraio 1972, in piena Guerra Fredda, il Presidente Richard Nixon si recava a Pechino su iniziativa del Segretario di Stato Henry Kissinger, avviando la normalizzazione dei rapporti tra Stati Uniti e Cina, nonché legittimando internazionalmente Pechino. L’obiettivo era chiaro: isolare l’Unione Sovietica, sfruttando Pechino come leva strategica contro Mosca.
Quella manovra diplomatica, basata su precetti di realpolitik, si fondava su un principio chiave: individuare il nemico principale e contenerlo attraverso un sistema di bilanciamento di potenza. Gli attori “minori”, come la Cina degli anni 70, ancora troppo coinvolta negli effetti della Rivoluzione Culturale di Mao, ma dall’altissimo potenziale demografico ed economico, non possono essere lasciati completamente nella sfera di influenza “nemica” ma debbono essere ricondotti, attraverso strumenti diplomatici e pressioni, in una posizione equidistante rispetto alle 2 potenze. Oggi, il contesto è ribaltato. Per gli Stati Uniti, la Cina rappresenta la minaccia strategica primaria, mentre la Russia, pur rimanendo un avversario, potrebbe essere indebolita diplomaticamente piuttosto che affrontata frontalmente. In quest’ottica si inserisce il tentativo di Trump di riavvicinarsi a Mosca, riducendone la dipendenza da Pechino.
Propaganda e strategia
Nel paradigma realista delle relazioni internazionali, la propaganda gioca un ruolo chiave nel modellare le percezioni globali e orientare le decisioni strategiche.
Durante la campagna elettorale, Trump ha promesso di “risolvere il conflitto russo-ucraino in 24 ore”, una dichiarazione che aveva l’obiettivo primario di preparare l’opinione pubblica a un possibile riassetto dei rapporti con Mosca. Dopo l’insediamento, l’amministrazione ha intensificato la costruzione di una nuova narrativa politica e diplomatica.
Elemento chiave di questa strategia è la delegittimazione dell’Ucraina, con la rappresentazione di Zelensky come un leader autoritario, riducendo così il consenso internazionale nei suoi confronti. Parallelamente, si assiste a un ridimensionamento dell’impegno americano in Europa, con un’attenzione maggiore alle priorità interne, in linea con il sentimento dell’elettorato repubblicano.
L’obiettivo: spezzare l’asse sino-russo
L’orientamento di Trump riflette il malcontento di una parte significativa dell’opinione pubblica americana, stanca del ruolo degli Stati Uniti come “poliziotto globale” e favorevole a un approccio più isolazionista. Questo si traduce in una politica estera pragmatica, volta a ridurre il coinvolgimento diretto nei conflitti e a ricalibrare le alleanze strategiche con una chiara priorità: contenere la Cina.
Se la Russia viene considerata una minaccia secondaria rispetto a Pechino, la strategia americana potrebbe replicare il modello di Nixon, ma al contrario. Invece di avvicinare la Cina per isolare l’URSS, ora l’obiettivo è quello di allentare la pressione su Mosca per favorire un suo graduale distacco da Pechino.
Questa strategia ha tre obiettivi principali:
Le incognite: ostacoli interni e reazioni internazionali
Dal punto di vista geopolitico, la strategia di Trump può sembrare logica ma la sua attuazione presenta ostacoli significativi.
Il Congresso americano, in particolare l’ala più dura dei repubblicani e dei democratici, mantiene una posizione fortemente anti-russa. Qualsiasi apertura nei confronti di Mosca potrebbe incontrare forti opposizioni istituzionali, specialmente tra i membri della comunità dell’intelligence e del Pentagono, che considerano la Russia ancora una minaccia primaria.
Il ridimensionamento dell’impegno americano in Europa potrebbe essere visto con preoccupazione da Paesi come Polonia, Germania e Francia, che si affidano al supporto degli Stati Uniti per la sicurezza continentale.
Pechino è consapevole del tentativo americano di dividerla da Mosca e potrebbe rafforzare la cooperazione con la Russia in settori strategici come la difesa e l’energia. Inoltre, la Cina dispone di strumenti economici superiori rispetto agli Stati Uniti per mantenere saldo il legame con il Cremlino, grazie a investimenti diretti e accordi energetici di lungo periodo.
Conclusioni: Trump può riuscire nella sua strategia?
Il successo della strategia di Trump dipenderà dalla sua capacità di bilanciare due esigenze fondamentali. Da un lato, dovrà soddisfare un elettorato interno sempre più favorevole a un disimpegno dai conflitti globali; dall’altro, dovrà mantenere il ruolo degli Stati Uniti come superpotenza, evitando il rafforzamento di alleanze ostili.
Se riuscirà a separare Mosca da Pechino, replicando la manovra diplomatica di Nixon ma in senso opposto, potrebbe ridefinire gli equilibri geopolitici per i prossimi decenni. Tuttavia, resta da vedere se la Russia accetterà di essere strumentalizzata in questa dinamica o se preferirà mantenere la propria alleanza con la Cina, ritenendola un partner più affidabile per la propria sicurezza e stabilità economica.
Mattia Rossini